venerdì 24 aprile 2015

L'insegnamento e la conoscenza secondo Gibran


E UN MAESTRO DOMANDÒ: PARLACI DELL’INSEGNAMENTO

Ed egli disse: "Nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che sonnecchia nell’albeggiare della vostra conoscenza.
Il maestro che cammina all’ombra del tempio, tra i discepoli, non dà la sua sapienza, ma il suo amore e la sua fede.
E se egli è davvero saggio non vi invita a entrare nella dimora del Suo sapere, ma vi conduce alla soglia della vostra mente.
L’astronomo può dirvi ciò che sa degli spazi, ma non può darvi la sua conoscenza.
Il musico può cantarvi la melodia che è nell’aria, ma non può darvi l’orecchio che fissa il ritmo, né l’eco della voce.
E il matematico potrà descrivervi il mondo del peso e della misura, ma oltre non vi potrà guidare.
Giacché la visione di un uomo non impresta le sue ali a un altro uomo.
E come Dio vi conosce da soli, così tra voi ognuno deve essere solo a conoscere Dio, e da solo comprenderà la terra."


UN UOMO DOMANDÒ: PARLACI DELLA CONOSCENZA

Ed egli rispose, dicendo: "Il vostro cuore conosce nel silenzio i segreti dei giorni e delle notti.
Ma l’orecchio è assetato dell’eco di ciò che il cuore conosce.
Vorreste esprimere ciò che avete sempre pensato.
Vorreste toccare con mano il corpo nudo dei vostri sogni.
Ed è bene che sappiate: la sorgente nascosta dell’anima vostra dovrà scaturire un giorno, e fluire mormorando verso il mare; e ai vostri occhi si svelerà il tesoro della vostra immensa profondità.
Ma non con la bilancia peserete questo tesoro ignoto; e non sonderete con l’asta o lo scandaglio le profondità della vostra conoscenza.
Poiché l’essere è un infinito e sconfinato mare.
Non dite “Ho trovato la verità” ma piuttosto “Ho trovato una verità”.
Non dite “Ho trovato il sentiero dell’anima” ma piuttosto “Ho incontrato l’anima in cammino sul mio sentiero”.
Poi che l’anima cammina su tutti i sentieri.
L’anima non procede in linea retta, e neppure cresce come una canna.
L’anima si schiude in mille petali come un fiore di loto."


(da Gibran Kahlil Gibran, Il Profeta)

                                  (le immagini riproducono dipinti di Merab Gagiladze)                                    

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giovedì 16 aprile 2015

Mindfulness. Una poesia di Jon Kabat-Zinn

Hai mai fatto l'esperienza di fermarti del tutto,
di essere così totalmente nel tuo corpo,
di essere così totalmente nella tua vita
che quel che già sapevi e quello che non sai,
e quel ch'è stato e quel che ancora dev'essere,
e le cose come stanno proprio ora
non ti danno neanche un filo d'ansia o disaccordo?
Sarebbe un momento di presenza totale,
al di là della lotta, al di là della mera accettazione,
al di là della voglia di scappare o sistemar le cose o tuffarcisi dentro a testa bassa:
un momento di puro essere, fuori dal tempo,
un momento di pura vista, pura percezione,
un momento nel quale la vita si limita a essere,
e quell'"essere" ti prende, ti afferra con tutti i sensi,
tutti i ricordi, fin dentro i geni,
in ciò che più ami,
e ti dice: benvenuto a casa.
***


***

domenica 12 aprile 2015

Mindfulness. Un pasto consapevole in un giorno di raffreddore

Da che la mindfulness è entrata nella mia vita, mi piace molto la mattina alzarmi dal letto e dirigermi verso un pasto consapevole.
Se ho deciso di portare più consapevolezza nella mia vita, niente di strano se ne porto un po' anche a tavola, ogni tanto. E la mattina per me è un buon momento.
Una delle cose che amo mangiare a colazione è una mela tagliata a pezzetti dentro allo yogurt bianco.
Mi piaceva già da prima che mi mettessi a giocherellare con le mele durante i pasti consapevoli. Giocherellare ho detto. Ma sì. Alla fine un pasto consapevole è anche questo: essere talmente presenti all'esperienza da prenderci gusto, come se fosse un gioco.
Se dovessi dire a che gioco assomiglia, propenderei per la caccia al tesoro. La rotondità della mela, la non totale rotondità della mela, il picciolo, la cavità peduncolare, la calicina. Tutta roba sensibilmente reale a cui faccio caso diversamente, da quando il mio rapporto con le mele è diventato più consapevole. 
Il rosso della buccia. Il rosso non uniforme della buccia: i puntini, le righe, quel po' di giallo che pure c'è e che non è dappertutto lo stesso giallo (e anzi a volte non è nemmeno più giallo...). L'opacità che diventa gradualmente  lucidità, a mano a mano che strofino i polpastrelli sulla buccia. E poi certo il freddo della mela, se l'ho presa dal frigorifero, il suo profumo, il suo peso, ed anche il rumore che fa, quando la passo da una mano all'altra. 
Chi crede che la superficie di una mela sia uniformemente liscia come quella di una palla da biliardo, provi a farsela rotolare piano piano sulle guance o sulle labbra, o anche a farsela girare dentro i palmi delle mani tenendo gli occhi chiusi. Forse avrà una sorpresa.
È sorprendersi ancora e ancora per ciò che c'è, mentre c'è, che rende i nostri momenti interessanti,  significativi, importanti, e la nostra vita un viaggio di continue scoperte, meritevole di tutta la nostra attenzione, presenza, interesse.
A volte sono più che altro gli stimoli forti, i fatti eccezionali, i viaggi in territori lontani (che si tratti di viaggi veri e propri o di viaggi in senso metaforico) che ci ricordano cosa significhi fare scoperte e vivere con un senso di sorpresa. Praticare la consapevolezza nel quotidiano ci consente di sperimentare scoperte e sorprese, anche in momenti in cui apparentemente non sta accadendo nulla
***
Ieri mattina la mela non aveva sapore.
Rigiravo in suoi pezzetti in bocca, facendoli andare sotto al palato, a destra e a sinistra della lingua, un po' più avanti e un po' più indietro. Ne ho letto ad occhi chiusi dentro la bocca ogni aspetto concernente la forma, gli spigoli, la consistenza, la temperatura. Ho sentito il rumore che facevano sotto i miei denti, mentre li masticavo attentamente, e li ho sentiti secernere liquido sotto l'effetto del pestaggio. Ma niente sapore. Se un po' di dolce c'era, era talmente poco, da essere sopraffatto dalla diluizione nello yogurt, che a sua volta non sapeva di niente (era pura consistenza, scioglimento, mobilità, inseguimento) e non era nemmeno acido. 
Gusto e olfatto avevano conosciuto il silenzio come un udito condotto a un concerto senza musica.
O come il silenzio di un sordo a un concerto (esperienza  rappresentata peraltro magistralmente nel recente film La famiglia Bélier).
Ma, a parte ciò, cos'era successo alla mia mela di ieri?
Vivere attentamente il suo non sapore è stato anche vivere la mia delusione e un vago senso di tradimento.
Sorprendersi infatti non significa necessariamente vivere belle sorprese. Si vive quello che c'è.
Ieri c'era il raffreddore. Ed è stato con me tutto il giorno, offrendomi un'esperienza del mondo attraverso il suo filtro: una specie di carta assorbente che tratteneva gli odori e i sapori, e mi passava un mondo di cose ripulite, che non sapevano più di niente.
A pranzo non avevo in programma un pasto consapevole. E tuttavia sapevo che mi sarebbe toccato un pasto col raffreddore, cioè un pasto insapore e inodore.
Per cui è stata la fame a spedirmi in cucina e non certo la voglia.
Avvertire la fame è accostarsi ad un sentire del corpo che nelle società dell'abbondanza tendenzialmente non si tiene per molto tempo. Appena abbiamo fame mangiamo qualcosa, e poi magari dopo ci trastulliamo con mille domande sul fatto se era vera fame o fame nervosa, e insomma quelle cose lì.
Per cui alla fine starci un po' insieme, con questa fame, e sentirla - non tanto con il pensiero quanto con l'esperienza sensoriale diretta - e quindi cercarla nel punto del corpo in cui si manifesta con più evidenza, osservare come si presenta, cosa provoca qua o là, e portare attenzione anche alla pressione delle  forze che dentro di noi ci spingono a risolverla, ad eliminarla, può insegnarci molto riguardo a noi stessi e a ciò che c'è dietro (o anche dentro) ai nostri comportamenti alimentari più scontati.
Fatto sta che ho aperto il frigorifero ed ho tirato fuori un mazzetto di carote, tre finocchi e due fascetti di ravanelli.
L'abbinamento dei colori era molto piacevole: bianco, arancione, rosso, verde. E pensare che sono tutte cose che crescono sotto terra. Tanto colore ad un livello dell'esistenza a cui l'occhio normalmente non accede. Bisogna mettersi a scavare per accorgersene, non basta restare in superficie.
Ecco un tipico pensiero da psicologa, avrebbero detto le mie figlie, riportandomi al fatto che ora stavo con la testa dentro al frigorifero, luogo davvero sconsigliabile per filosofeggiare quando si ha il raffreddore.
È che ne avrei inventate mille, pur di sottrarmi alla noiosa preparazione di quel pasto.
Una cosa molto interessante che ho scoperto nel mio panorama interiore, da che pratico la mindfulness, sono le tante sfumature fisiche e mentali che possono racchiudersi nella sbrigativa definizione di noia. Cos'è la noia veramente? Dove sta nel corpo, che sensazioni dà, che succede a tenersela un po'? Quello che succede a me, di solito, è questo. Appena mi metto ad osservare con curiosità la mia noia, e la rendo oggetto della mia attenzione, non mi dà più tanto fastidio. Diventa in un certo senso interessante pure lei, nonostante sia noia.
Ma le carote?
Ho cominciato a pulirle con attenzione e quasi con rispetto, notandone le zone barbose e quelle glabre, le piccole grinze orizzontali che ne decoravano la superficie, e poi la sezione circolare che diventava visibile, una volta tagliato il ciuffo verde e la parte superiore della carota stessa.
C'è un mandala nella sezione di ogni carota. Lo sapevate? Come anche di ogni ravanello e di ogni finocchio, se è per questo. Sono i tipici disegni della natura, regolari e unici, presenti molto spesso in radici, ortaggi, fiori, frutti, e che tuttavia tante volte non vediamo, perché addentiamo frettolosamente le cose con l'unico intento di mandarle giù. 
Cadendo nell'acqua in cui li lavo fanno rumori diversi le carote, rispetto ai ravanelli e ai finocchi, e lo stesso quando li tolgo dall'acqua e li riverso nel colapasta per sgocciolarli. 
Servirebbe a qualcosa dare un nome ad ogni rumore, e descriverlo per come è fatto? Servirebbe solo forse per scriverlo qui. Non mi sono sforzata di cercare le parole, mi sono semplicemente messa in ascolto. Ho chiuso gli occhi e fatto spazio ai suoni, che fosse acqua corrente di rubinetto, o zampillo dovuto al tuffo di una carota, o vibrazione del colapasta nel lavello mentre ci buttavo dentro un finocchio.
"Ora vi mangio, altro che concerto. Ho fame!". Questo pensiero l'ho riconosciuto chiaramente. Forse  gridava più forte di tutti i suoni. Ma c'era una sfida in corso: scoprire le qualità di carote, finocchi e ravanelli nella mia bocca, prima ancora che nel mio stomaco, in assenza di ogni informazione proveniente da gusto e olfatto. Insomma, niente corse. 
Ho guardato una carota che più arancione non si poteva.
Era questo? Era solo colore? Non che non fosse abbastanza, intendiamoci. Ma non era solo questo. Infatti era anche croc croc sotto i denti, e vago intreccio di fibre che secernevano un succo. Ma certo: succo di carota! Poi una piccola sorpresa, giusto un attimo prima di deglutire. Un lieve pizzicorino quasi in gola, come un sapore nuovo. Che fosse questo il vero sapore di una carota? Che fosse stato necessario proprio un giorno di raffreddore per scoprirlo? Non saprei.
Ciò che invece so quasi con certezza, arrivati a questo punto, è che difficilmente sopportereste ancora a lungo la descrizione di questo pasto. Per cui direi di finirla qui. 
Che un ravanello pizzichi, non è difficile da immaginare. E che possa pizzicare un po' persino un finocchio, magari ormai ce lo aspettiamo. Tutto questo c'è stato e anche altro (persino un secondo piatto...). Ma vi risparmio la cronaca.
E il finale?
In verità non sarebbe molto mindfulness né pretenderlo, né aspettarselo, né chiamarselo. 
E meno che mai prometterlo! 
Mindfulness è portare l'attenzione intenzionalmente nel momento presente, stare completamente nel qui e ora.
Se ora stiamo con la testa nel finale che verrà, allora non siamo veramente qui, su questo rigo, in questo momento!
Però devo anche dire che, nella realtà, un buon finale c'è stato. 
Perché tacerlo, allora, visto che fa parte della storia?
Lo trovate più sotto, dopo la foto del mio pinzimonio.
Forse è una chiusura. Forse è un capitolo a  sé.


Dai e dai, a fine giornata il raffreddore si è arreso.
L'ho capito chiaramente la sera, rientrando a casa.
Ho annusato l'aria e mi sono accorta che non era più filtrata.
Potevo distinguere nitidamente il profumo dei finocchi.
Ecco il piccolo trionfo della guarigione.
Eccomi pronta per una cena normale. Finalmente.
***


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giovedì 9 aprile 2015

Coltivare la gratitudine con una poesia di Borges

UN’ALTRA POESIA DEI DONI
di
 JORGE LUIS BORGES 
***
Ringraziare voglio il divino
labirinto delle cause e degli effetti
per la diversità delle creature
che compongono questo universo singolare,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse, 
per l’amore, che ci fa vedere gli altri 
come li vede la divinità, 
per il saldo diamante e l’acqua sciolta 
per l’algebra, palazzo di precisi cristalli, 
per le mistiche monete di Angelus Silesius, 
per Schopenhauer, 
che forse decifrò l’universo, 
per lo splendore del fuoco 
che nessun essere umano può guardare 
senza uno stupore antico 

per il mogano, il sandalo e il cedro, 
per il pane e il sale, 
per il mistero della rosa 
che prodiga colore e non lo vede, 
per certe vigilie e giorni del 1955, 
per i duri mandriani che nella pianura 
aizzano le bestie e l’alba, 
per il mattino a Montevideo, 
per l’arte dell’amicizia, 
per l’ultima giornata di Socrate, 
per le parole che in un crepuscolo furono dette 
da una croce all’altra, 
per quel sogno dell’Islam che abbracciò 
mille notti e una notte, 
per quell’altro sogno dell’inferno, 
della torre del fuoco che purifica, 
e delle sfere gloriose, 
per Swedenborg, 
che conversava con gli angeli per le strade di Londra, 
per i fiumi segreti e immemorabili 
che convergono in me, 
per la lingua che secoli fa parlai nella Northumbria, 
per la spada e l’arpa dei sassoni, 
per il mare, che è un deserto risplendente 
e una cifra di cose che non sappiamo, 
per la musica verbale d’Inghilterra, 
per la musica verbale della Germania, 
per l’oro che sfolgora nei versi, 
per l’epico inverno 
per il nome di un libro che non ho letto, 

per Verlaine, innocente come gli uccelli, 
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone, 
per le strisce della tigre, 
per le alte torri di San Francisco e di Manhattan, 
per il mattino nel Texas, 
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale, 
e il cui nome, come preferiva, ignoriamo, 
per Seneca e Lucano, di Cordova, 
che prima dello spagnolo 
scrissero tutta la letteratura spagnola, 
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi, 
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce, 
per l’odore medicinale degli eucalipti, 
per il linguaggio, che può simulare la sapienza, 
per l’oblio, che annulla o modifica i passati, 
per la consuetudine, 
che ci ripete e ci conferma come uno specchio, 
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio, 
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia, 
per il coraggio e la felicità degli altri, 
per la patria, sentita nei gelsomini 
o in una vecchia spada, 
per Whitman e Francesco d’Assisi che scrissero già 
questa poesia, 
per il fatto che questa poesia è inesauribile 
e si confonde con la somma delle creature 
e non arriverà mai all’ultimo verso 
e cambia secondo gli uomini, 
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli 
perché moriva così lentamente, 
per i minuti che precedono il sonno, 
per il sonno e la morte, 
quei due tesori occulti, 
per gli intimi doni che non elenco, 
per questa musica, misteriosa forma del tempo. 

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http://ciochesimuovenoncongela.blogspot.it/2015/04/coltivare-la-gratitudine-oggi-ce-lo.html
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