venerdì 22 novembre 2013

"Portami i tuoi sogni (...e decidi che vuoi fare)" - Attività di fine anno per sognatori che agiscono


"Il mondo ha bisogno
di gente che sogna e di gente che agisce.
Ma più di tutto il mondo ha bisogno
di sognatori che agiscono."
(Sarah Ban Breathnach)
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Come vi avevo preannunciato, è in partenza a dicembre il prossimo corso di life coaching, dedicato questa volta ai nostri progetti per l'anno nuovo. 
E' un corso di 14 ore distribuite in sei giorni.
I primi quattro incontri, della durata di tre ore ciascuno (6-13-20-27 dicembre 2013), consisteranno in sessioni di life coaching di gruppo, dove ogni partecipante verrà guidato a chiarire a se stesso cosa realmente vuole per l'anno prossimo, e come intende procedere per raggiungere i suoi obiettivi, attingendo alle sue risorse e potenzialità, e nel pieno rispetto di tutto ciò che per lui ha valore nella vita.
Il quinto incontro, della durata di un'ora e quindici (31 dicembre 2013), sarà una specie di rito di passaggio dall'anno vecchio all'anno nuovo e un momento in cui i membri del gruppo si scambieranno gli auguri non solo di un generico buon anno nuovo, come si fa sempre, ma proprio dell'anno nuovo che ognuno ha sognato e condiviso con gli altri. Il gruppo quel giorno si scioglierà, e dal giorno dopo ognuno viaggerà da solo verso le sue mete. .
Il sesto incontro (3 gennaio 2014) consisterà in una sessione individuale di life coaching, in cui ogni membro del gruppo potrà confrontarsi con me, singolarmente, per 45 minuti, e  ricevere così  un'attenzione personalizzata per ciò che più specificamente gli sta a cuore.
A seguire, la locandina del corso

Per informazioni e prenotazioni, telefonare al numero 388.8257088.
L'evento è riportato anche sulla pagina delle attività (clicca qui)  e su facebook (clicca qui)

sabato 16 novembre 2013

Anni che fanno domande, anni che danno risposte

Se è vera la bella frase di Zora Neale Hurston, secondo cui "Ci sono anni che fanno domande e anni che rispondono", forse siamo ancora in tempo, prima della fine dell'anno, a tirare fuori tutte le domande necessarie perché questo sia l'anno delle domande ed il prossimo quello delle risposte.
È a questo tema che si ispira il post di oggi, che richiedeva un breve preambolo, visto che parla della fine dell'anno, che in sé e per sé non arriverà prima di quaranta e più giorni (mentre noi, intanto, prepareremo il terreno alle risposte...) 

Chiudere un anno ed aprirne un altro è sempre come varcare una soglia: foss'anche una soglia interiore, simbolica, che ha a che fare più con ciò che accade dentro di noi che con quello che accade sul calendario del mondo.
Immaginate che alla vostra casa venga aggiunta  un bel giorno una stanza in più.
Bene, il passaggio dall'anno vecchio all'anno nuovo è un po’ come varcare la soglia di quella stanza.
Ci sono persone la cui casa è talmente ingombra di cianfrusaglie da considerare la stanza nuova un semplice prolungamento di tutto il resto (e quindi destinata ad essere l’ennesimo deposito di ciarpame).

Come a loro così anche a noi potrebbe sembrare che l’anno nuovo, prima ancora di essere cominciato, sia già ipotecato e oppresso dai problemi che ci trasciniamo dietro dall’anno vecchio.
Per essere in qualche modo godibili, come contenitori di buone novità, sia la nuova stanza sia il nuovo anno richiedono un lavoro preparatorio di selezione, pulizia, sgombero, riordino, riorganizzazione.
Un lavoraccio, insomma.
Quel tipo di lavoracci che non si possono nemmeno delegare, perché, nel fare ordine in una casa, come nel fare ordine nella nostra vita, ci sono scelte che nessuno può fare al posto nostro (tipo - nella casa -: "lo regalo o non lo regalo il costosissimo pullover di cashmere che mi fa sembrare un vecchio tricheco?", o tipo - nella vita-: "lo lascio o non lo lascio il fascinosissimo amante, che mi tiene sulla corda da tre anni ed ora ha messo pure in cantiere - dice per sbaglio - il terzo figlio con la moglie?").
Insomma, a volte decidere di rifondare un'area insoddisfacente o trascurata della nostra vita è proprio  imbarcarsi in un'avventura.
Ci sono quelli che per natura sono più avventurosi e quelli che per natura rifuggono dall'avventura, a costo di schermarsi dai problemi della propria vita con un sistema molto spiccio: la negazione. Invece di fare un faticoso inventario di ciò che funziona e di ciò che non funziona nella mia casa, o nella mia vita, ficco tutto così com’è dentro una stanza e chiudo la porta a chiave. Magari là per là ho anche una parvenza d’ordine intorno a me, e  l’impressione che il problema, per il fatto che non si vede, non ci sia. 
Ma, che ci piaccia o no, la verità è un'altra.
Un problema se c'è, c'è: non vale a nulla negarlo.
Ciò che non si vede, infatti, se c’è, comunque si sente (eccome, se si sente!).
Immaginate che le cianfrusaglie rinchiuse nella stanza (il vostro sopradetto pullover o la vostra calpestata dignità) comincino un bel giorno a battere i pugni sulla porta, perché rivendicano il diritto di essere presi in considerazione da voi.
Lo sentite il rumore dei pugni?
Bene, vi consiglio di farci caso e di non mettervi i tappi nelle orecchie. Perché altrimenti il pullover e la dignità, assieme al resto delle questioni sospese, batteranno ancora più vigorosamente su quella porta, finché le mura di casa vibreranno con tale violenza che non potrete più fare finta di niente, e vi toccherà comunque affrontare la situazione in qualche modo (fosse anche con i pompieri o con uno psichiatra).
Nei percorsi di life coaching aiuto le persone a trovare la forza di mettere ordine nelle aree  insoddisfacenti della loro vita: a fare un bell'inventario di quello che c'è dentro, a decidere cosa buttare e cosa tenere, ma soprattutto a fare spazio al nuovo che verrà e che ora è già presente come pura potenzialità in attesa di essere vista, desiderata e  coltivata.
La parte più bella e stimolante di un percorso di life coaching, infatti, (quasi magica, secondo alcuni) non è tanto quella della "riordinata" preliminare - che pure ci vuole, figuriamoci - ma piuttosto quella della creazione del nuovo, della costruzione del futuro che vogliamo, il cui inizio si fonda sempre su una specie di atto di "pre-veggenza".
Infatti, se vogliamo fare della nostra vita la nostra opera d’arte, dobbiamo fare proprio come un artista vero: vedere l’opera nella nostra mente, prima ancora di dipingerla sulla  tela o scolpirla nel marmo.
E solo dopo averla vista, desiderata, riconosciuta come la vita per cui sentiamo di essere nati, possiamo finalmente  passare alla fase successiva, e chiederci: come si fa ad arrivare fin là?
Le risposte a questa domanda all'inizio possono sembrarci molto difficili da trovare, ma a un certo punto esse cominciano a venirci alla mente con una maggiore facilità.
La nostra mente, infatti, si organizza per trovare le soluzioni che cerchiamo, quando abbiamo chiarito a noi stessi cosa realmente cerchiamo; ci rende più attenti alle occasioni, alle opportunità, alle strade e agli incontri che possono favorire la realizzazione del nostro desiderio.  Questo stesso desiderio, poi, ci caricherà di preziosa energia rendendoci capaci di affrontare le difficoltà e le sfide con maggiore grinta e fiducia in noi stessi.
Valutate perciò seriamente la possibilità di avvicinarvi a un percorso individuale o collettivo di life coaching, in prossimità della fine dell'anno. 
Consideratelo il miglior regalo di Natale che possiate fare a voi stessi. 
Dopo tutto, anche per tradizione, la fine di un anno è un momento simbolicamente propizio per disfarsi del vecchio e gettare i semi del nuovo.
A me è sempre piaciuto avviarmi verso il nuovo anno con un sogno nel cuore.
Portatemi i vostri sogni... e quest'anno brinderemo insieme!
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domenica 10 novembre 2013

Il "capo espiatorio": un mantello per le nostre... cicatrici di guerra

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"Si diventa grandi sulla propria pelle
sulle proprie palle
 e su poche stelle."
(Roberto Vecchioni)

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"E' una buona idea ... calcolare l'età
non in base agli anni
 ma in base
 alle cicatrici di guerra.
«Quanti anni hai?»,
 mi chiedono talvolta.
Ed io rispondo:
 « Ho diciassette
 cicatrici di guerra»." 
(Clarissa Pinkola Estés)

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Nel suo libro Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés racconta di un rituale, da lei attuato personalmente e poi suggerito anche ad altre persone (che pare lo abbiano apprezzato), che consiste nella realizzazione di un "capo espiatorio".
Si tratta di un capo, e per l'esattezza di un mantello, su cui una persona attacca, dipinge, ricama, scrive o comunque rappresenta simbolicamente i passaggi più dolorosi e difficili della propria vita: quelli che le hanno lasciato dentro qualche cicatrice, le cosiddette cicatrici di guerra, testimonianza di tutte le battaglie e gli attacchi a cui è sopravvissuta.
Come capo di abbigliamento è probabilmente la cosa peggiore che si possa concepire (e farebbe  probabilmente rimanenza in qualunque boutique, se mai ci arrivasse).
Ma l'intenzione originaria dell'autrice non era certamente di farne il pezzo forte del proprio guardaroba. Piuttosto il contrario:  l'intenzione originaria era di farne qualcosa di transitorio, un capo su cui caricare i segni di tutti i dolori della propria vita per poi distruggerlo (magari bruciandolo), come in una specie di rito  purificatorio.
Quest'ultimo peraltro può richiamare alla nostra mente il rito ebraico del kippūr, dove un'analoga funzione veniva assolta dal capro espiatorio, cioè dal capro che, caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati del popolo, veniva poi mandato via nel deserto.
Fatto sta che, una volta realizzato il suo mantello ("talmente pesante che per sollevare lo strascico ci voleva un coro di Muse"), Clarissa Pinkola Estés si accorse di un fatto strano. Ecco cosa racconta:
"Avevo in mente di mettere tutti i rifiuti psichici in questo unico oggetto psichico, e poi di disperdere alcune delle mie antiche ferite bruciando il «capo espiatorio». Ma poi tenni il mantello appeso al soffitto dell'anticamera, e ogni volta che gli passavo accanto, invece di sentirmi male, mi sentivo bene. Mi ritrovai ad ammirare gli ovarios della donna che poteva indossare un simile mantello e continuare a camminare a quattro zampe, a cantare, a creare, a dimenare la coda.Scoprii che ciò valeva anche per le donne con le quali ho lavorato. Mai hanno voluto distruggere il loro «capo espiatorio». Lo volevano tenere per sempre, e più era brutto e insanguinato, e meglio era".
Come a dire: un mantello del genere rappresenta le nostre cadute e le nostre sconfitte, ma anche le nostre vittorie, la nostra resistenza, e - a ben vedere - anche il nostro coraggio, perché ci vuole molto coraggio a realizzare un mantello così con le proprie mani.
Probabilmente non è una cosa che possiamo fare senza versare lacrime. Ma alla fine anche le lacrime hanno la loro funzione, anche le lacrime lavano e purificano, e forse anche questo può bastarci se non vogliamo ricorrere al fuoco.
"Le lacrime -  dice sempre Clarissa Pinkola Estés - sono un fiume che vi conduce da qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita-anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore."

sabato 9 novembre 2013

Cento cose tutte assieme. Multi-tasking umano e ricerca della serenità

"Conosco una donna - dice Sarah Ban Breathnach  nel suo libro L'incanto della vita semplice - che comincia a spazzolarsi i denti e, ancora col dentifricio in bocca, esce dal bagno e va a rifarsi il letto. E perché? Perché con la coda dell'occhio ha visto le lenzuola stropicciate. Non si è ancora sciacquata la bocca che si è già buttata a capofitto in un altro lavoro. Inutile dire che una giornata iniziata all'insegna della frenesia può soltanto procedere di male in peggio." 
Infatti non è esattamente questo il modo in cui immaginiamo che trascorra le sue giornate una persona serena. E probabilmente non è neanche il modo in cui noi stessi vorremmo trascorrere le nostre giornate.
Eppure, se siamo - o siamo stati - veramente gente che corre, probabilmente momenti del genere li conosciamo anche noi.
Stiamo facendo una cosa e all'improvviso ce ne viene in mente un'altra, o anche un'intera batteria (è in scadenza l'assicurazione sulla macchina, il cane va portato dal veterinario, c'è di nuovo una macchia d'umido sul soffitto, si devono consegnare le carte al commercialista, c'è da contestare la bolletta della luce, sta finendo l'inchiostro nella stampante, c'è da riguardare questo lavoro  prima di consegnarlo domani...).
Oppure ci capita, magari, di organizzare tutto a meraviglia per concentrarci finalmente sul nostro compito e si scatena una specie di congiura del mondo che interferisce inesorabilmente col nostro programma (qualcuno ci chiama in un'altra stanza, la posta elettronica ci recapita un'email urgente, ci telefona nostra madre per una questione condominiale, la nostra collega comincia a lamentarsi dei suoi dolori, dalla segreteria della scuola arriva la notizia del mal di pancia di nostro figlio, poi quattro messaggi sul cellulare, tre messaggi via fax, senza contare i commenti sotto il nostro  post di ieri sera su facebook...).
Tutto questo restando nell'ambito dell'ordinaria amministrazione: un'ordinaria amministrazione in cui ci sembra impossibile poter riuscire a fare tutto senza fare tutto assieme (anche se sappiamo benissimo che non è certo questa la strada per arrivare alla serenità: a un bell'esaurimento nervoso, quello magari sì, ma alla serenità proprio no!).
Il rischio, vivendo così, è di disperdere le nostre energie ai quattro venti, sfiancandoci, sentendoci in perenne affanno, e con la netta sensazione che da un momento all'altro schizzeremo via da questo pianeta.
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Portare a termine cento cose, facendone una sola per volta, può sembrarci una missione impossibile, eppure riuscirci è un ottimo sistema per ridurre il rischio di "ingorghi" (fisici, mentali, emotivi) e per preservare il nostro equilibrio.
Da dove partire?

Tutte le pratiche di mindfulness sono un continuo esercizio a essere presenti nel qui e ora, anche durante la vita ordinaria, ed è con questo tipo di atteggiamento che possiamo imparare a fare cento cose, una alla volta,  dedicando a ciascuna piena attenzione e senza... esaurirci.
E' chiaro che se non possiamo permetterci di dedicare la nostra intera giornata a fare una sola cosa, dovremo darci dei tempi e delle scadenze, e decidere per esempio di dedicare a una certa cosa la prossima mezz'ora, o i prossimi venti minuti, e non di più (perché poi c'è altro da fare). Ma, di qualunque cosa si tratti, l'importante è adottare un atteggiamento mentale per cui, nella prossima mezz'ora o nei prossimi venti minuti - cascasse il mondo - niente interferirà con quello che stiamo facendo.
Per quanto scontata possa sembrare - e non lo è... - questa cosa dobbiamo tenerla a mente anche quando interagiamo con altre persone, se abbiamo cara la nostra vita relazionale.
Infatti il multi-tasking (espressione mutuata dalla terminologia informatica, per indicare la capacità  di un processore di eseguire più programmi simultaneamente e così, estensivamente, anche la capacità di una persona di fare più cose tutte assieme, quasi dimenticandoci che non è un computer), può danneggiare i rapporti umani quando, nel nostro fare più cose per volta, coinvolgiamo anche un’altra persona. Infatti rischiamo di dedicare a questa persona (sia essa un collega, il partner, un figlio o anche la commessa del supermercato)  un’attenzione frammentaria, cioè spezzoni di attenzione rubati a qualcos'altro, e così un po' badiamo a lei e un po' badiamo a un'altra cosa, trattando questa persona alla stregua di un'incombenza tra le tante da sbrigare. E questo  certo non giova alla qualità dei nostri rapporti interpersonali, perché una persona se ne accorge  che la trattiamo come l'ennesima incombenza della nostra giornata e difficilmente troverà l'interazione con noi ricca, appagante, nutriente.
Già altre volte su questo blog ho accennato ai benefici che possiamo ottenere in termini di serenità attraverso pratiche che favoriscono la consapevolezza del momento presente. Ne ho parlato a proposito del  prestare attenzione durante le attività di routine, del camminare in modo consapevole, dell'utilizzare le sensazioni fisiche come modo per rimanere consapevoli e presenti; senza contare tutti i post contrassegnati specificamente con l'etichetta Mindfulness.
Sono tutte pratiche che, allenando la nostra capacità di stare nel presente, ci portano a restare concentrati su un compito mentre lo svolgiamo. Si tratta allora di adottare un atteggiamento meditativo anche nel portare a compimento (una alla volta) tutte le altre mille incombenze della nostra vita.
In realtà, però, è anche vero che le condizioni ideali per essere continuamente presenti e consapevoli spesso ci mancano, perché un conto è la teoria e un conto è la pratica. Pochi di noi infatti riescono a vivere in uno stato di permanente quiete meditativa, anche se sono convinti della sua utilità e credono fermamente che sia quello il vero stato di grazia. Insomma, voglio dire... siamo gente che corre, non ce lo dimentichiamo!
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Deng Ming-Dao, parlando della quiete nel suo libro di meditazioni Il Tao per un anno, dice:
"Le vicende del mondo vengono spesso eufemisticamente definite 'un gran polverone': un affannarsi continuo che non si può eliminare con un semplice colpo di spugna, ma in cui è altrettanto impossibile trattenersi a lungo. Possiamo cercare il distacco nella meditazione, ma finché gli stimoli esterni continuano a bombardarci la mente, non ci è dato trovare la vera quiete meditativa . [...] Se siamo costretti a restare qui [...], e ciò nonostante desideriamo esercitarci nell'arte della tranquillità, il ritiro, sempre necessario, sarà di portata più modesta. Potremo così raggiungere la quiete, anche se per periodi brevi e transitori."
In quest'ottica, se ci accorgiamo che - con tutta la nostra buona volontà - la quotidianità ci sfugge di mano e stiamo scivolando nel multi-tasking, fermiamoci almeno un momento, facciamo un bel respiro e sospendiamo azione e pensiero per qualche momento. Una breve pausa non può che giovarci (proprio come giova a volte ai congegni elettronici quando si inceppano per il troppo traffico).
Se poi ne abbiamo l'opportunità e la voglia, possiamo anche provare a dedicare qualche minuto a una breve pratica di consapevolezza, di cui abbiamo già  parlato in altro post,  e che è detta appunto "Tre minuti di respiro".
Si tratta di una specie di mini-meditazione tratta dal programma MBCT che possiamo inserire nell'ambito delle nostre abituali giornate di corsa, non solo come semplice pausa per prendere fiato,  ma come vera e propria occasione  per prendere consapevolezza di ciò che ci sta accadendo in un certo preciso momento, di qualunque cosa si tratti. Diventare infatti veramente consapevoli di una routine in cui ci siamo lasciati coinvolgere ci aiuta a relazionarci diversamente anche con le  difficoltà che dobbiamo affrontare e può  consententirci di gestirle  in un modo migliore.



















martedì 5 novembre 2013

Corsi di self coaching e... compiti a casa

"Perché un corso di self-coaching?", potrebbe chiedersi qualcuno. "Se mi devo aiutare da me, allenare da me, motivare da me, allora mi compro un bel manuale di auto-aiuto, e buona notte!".
Sì, proprio buona notte. Perché il principale problema, con i manuali di auto-aiuto, supponendo pure che ne esista qualcuno che faccia proprio al caso nostro, è che spesso e volentieri li compriamo,  se pure li compriamo, ne sfogliamo qualche pagina per mezzo, giusto per farcene un'idea, e poi li mettiamo da qualche parte a riposare - magari proprio sul comodino - aspettando che ci facciano bene, ci motivino, ci portino da qualche parte.
Io non so a che livelli di potenza siano arrivati i manuali di auto-aiuto di ultima generazione, però non credo che siano ancora arrivati a quel livello lì, da garantire la loro funzione di aiuto attraverso il mero fatto del possesso, quasi a poterci passare dei contenuti per osmosi.
Aiutare sé stessi richiede un impegno. C'è chi lo sa fare, chi se lo può permettere, e chi non è proprio portato per queste cose (e allora Amen, non è né reato né peccato, ma solo un modo di essere come un altro, che comunque non si risolve con l'acquisto di un libro e nemmeno di cinquanta).
La prima cosa per cui la gente scalcia, quando va a seguire un corso di self coaching, è che... vengono assegnati dei compiti da fare a casa!
Ma a ben pensarci - potrebbe essere la risposta - se uno si sceglie un corso di self-coaching, è perché forse vuole imparare a lavorare per conto proprio a casa, ad allenarsi da solo, come chi fa ginnastica nel soggiorno, anziché in palestra, ma al tempo stesso è in cerca di una spintarella in più, rispetto all'arida prospettiva di fare gli esercizi scritti sopra a un libro.
Bene, quelli che vengono assegnati come compiti a casa, in un corso di self coaching, sono esercizi di allenamento in autonomia, che all'inizio vengono appunto "assegnati", ma poi entrano a far parte di routine che ognuno si gestisce come crede,  approfondendo la ricerca ulteriore da sé, se lo crede utile,  o  limitandosi a seguire il tracciato di massima suggerito, perché gli sta bene così, ed è comunque qualcosa che gli è stato passato da mano a mano, da essere umano ad essere umano, e non da un arido libro stampato, che in certi momenti non si ha né la voglia, né la forza di leggere...
Vai al programma del corso di self coaching che inizia l'8 novembre