venerdì 12 ottobre 2012

Piccole coincidenze significative (sincronicità della vita quotidiana)



Ci sono momenti della vita in cui tra il mondo esterno (i fatti reali) ed il nostro mondo interno (i nostri pensieri) si creano strani incastri, strane coincidenze, che un po' ci disorientano, ma un po' anche ci illuminano.

Jung parlava a tale proposito di sincronicità, e l'argomento è stato ripreso e trattato da molti  autori anche dopo di lui.
Tutte le coincidenze ci stupiscono e ci danno da pensare. Le coincidenze poi tra i nostri pensieri e i fatti reali, che alla luce di quei pensieri diventano per noi "significativi" (cioè dotati di un senso, per noi, molto speciale), ci sorprendono ancora di più.

Che uso farne di cose così?
Questa è una vecchia storia! Generazioni intere di indovini si sono costruiti una reputazione sull'interpretazione di fatti concreti che sembravano metafore illuminanti.

Io credo che noi diventiamo capaci di leggere i fatti della vita reale come metafore, quando andiamo alla ricerca di risposte per le quali la nostra mente razionale da sola è insufficiente: non ce la fa.
In effetti tutto può essere letto come metafora di qualcosa: solo che la metafora è una cosa che ti viene così, da sé, a un certo punto; non ci arrivi sforzandoti, ci arrivi intuitivamente. E' un atto creativo.
Ben vengano quindi le coincidenze significative, quando ci aiutano ad aprirci la mente, a darci delle risposte. Perché siamo noi stessi a darcele, quelle risposte. Le circostanze esterne sono l'occasione: attivano le nostre risorse, la nostra mente intuitiva. A volte sembrano andarci diritti al cuore, certi fatti: perché ci disorientano talmente che non ci danno il tempo di ragionare. E magari è proprio bypassando la mente logica che troviamo la risposta che cercavamo. Come farebbe un indovino. E come fanno i miti degli uomini dalla notte dei tempi.    
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C'è un giovane africano che da circa un anno staziona fuori a una certa salumeria del centro con un cappello in mano.
Dire che chiede l'elemosina non sarebbe esatto, perché tecnicamente lui non chiede niente. Se tu entri nella salumeria, ti guarda negli occhi, ti fa un bel sorriso e ti dice buon giorno. Se tu esci dalla salumeria, lo stesso. E lo stesso pure (quando sei cliente abituale) se passi 
sul marciapiede della salumeria, su quello opposto o in macchina per la strada davanti alla salumeria. Punto.
Quelli della salumeria non lo cacciano dalla sua postazione e lui, a sua volta, non varca la soglia della salumeria.
Un giorno però mi sono accorta che quelli della salumeria si sono fatti aiutare da lui a trasportare certi pacchi dal furgone al deposito. Un altro giorno poi si è offerto lui spontaneamente di portare le mie buste della spesa fino alla mia macchina. Un altro giorno ancora ho visto quelli della salumeria chiamarlo, perché aiutasse un'altra signora a portare la sua spesa alla macchina.
Fin qui tutto bene (anche perché, in un certo senso, potrebbe considerarsi un avanzamento di carriera la trasformazione di elemosine eventuali in mance certe).
Un giorno però ho avvertito una nota stonata in tutto questo. Ho sentito cioè uno della salumeria che chiamava il ragazzo "Negretto". Per l'esattezza, da dietro al banco e rivolto verso la porta sulla strada, ha urlato (affettuosamente, per la verità) "Ehi, Negretto!", e il ragazzo col suo solito sorriso gli è andato incontro per vedere che volesse.
Tranquillo lui. Tranquillo il bianco. L'unica che aveva da ridire ero io. Che razza di appellativo era "Negretto"? Era una cosa razzista, era una cosa per sfottere, era una cosa che voleva sembrare carina e invece era svalutante (tipo dare del "buon uomo" a un uomo o della "nonnina" a una donna anziana)?
In altri tempi avrei fatto una tirata d'orecchi al salumiere. E probabilmente sarebbe stata una sparata fuori posto, perché il salumiere è un uomo di una certa età, gentile e bonario, e il ragazzo da parte sua non aveva l'aria di essersi offeso.
Allora ho deciso di stare zitta.
Nel prendere questa decisione mi sono sentita come quando, in certi tirocini universitari, mi mandavano nei contesti più strani e improbabili con la specifica consegna di stare ferma e zitta, qualunque cosa avessi visto o udito e nonostante qualunque provocazione mi provenisse dal contesto.
Questa specie di tortura (che in realtà è un training estremamente formativo per uno psicologo) si chiama osservazione non partecipante. Al di là delle definizioni tecniche, e volendo andare un po' più sul romantico, si potrebbe dire che un osservatore non partecipante è uno che guarda le persone che affrontano il proprio destino e non interviene. Perché? Perché il suo compito non è quello di cambiare il destino delle persone ma solo quello (ed è già tanto...) di cercare di comprendere cosa sta succedendo.
Fine del riassunto delle puntate precedenti.
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Veniamo ad oggi.
Oggi il ragazzo stava col cappello in mano fuori alla salumeria.
Esco dalla salumeria e gli do una moneta.
Lui accetta la moneta e prende dalle mie mani le borse della spesa.
Io gliele lascio prendere per onorare il suo avanzamento di carriera (la moneta vale cioè come mancia e non come elemosina).
Mentre mi accompagna alla macchina, mi chiede notizie di alcuni membri della mia famiglia (come stanno e cose così), mostrando di conoscere i nostri legami di parentela.
A questo punto mi rendo conto che anche lui, dal suo angolo visuale, osserva noi clienti della salumeria mentre viviamo la nostra quotidianità sotto i suoi occhi, e forse anche lui cerca di comprendere come ce la caviamo noialtri con i nostri destini.
"Come ti chiami?" gli ho chiesto, mentre caricava le borse nella bauliera.
"Desten", ha risposto.
"Desten", ho ripetuto tra me e me e mi sono detta, chissà, magari è un nome un tantino ostico per noi italiani (e certo è più facile Negretto, come lo chiama il salumiere).
"Senti, Desten", gli ho detto, "il tuo nome sai per caso se ha un corrispondente nella lingua italiana?"
"Sì, che ce l'ha", ha detto lui illuminandosi.
"E qual è?", gli ho chiesto.
"Destino! Vuol dire Destino!", ha risposto tutto contento.
Ho farfugliato sentitissimi complimenti per la scelta di un nome così bello e originale, a chiunque fosse venuto in mente ("A mio padre!" ha chiarito prontamente Desten) ed ho augurato a lui, di vero cuore, un destino proprio bello, con la "D" maiuscola, come il suo nome.
Poi sotto il sole cocente sono finalmente salita in macchina, ho preso fiato, ed ho rinviato ad un momento più propizio la soluzione del quesito con cui si conclude questa storia (e cioè: il destino ti manda a dire qualcosa, quando succedono fatti così?). :-)


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Questo post a un certo punto dice "oggi", ma i fatti qui riferiti non sono di oggi. Si tratta infatti di un mio scritto di qualche tempo fa, già pubblicato altrove, che però mi sembrava calzante. E' un esempio di una sincronicità "lieve". A volte capita (e mi è capitata) roba più forte. Ma per un blog sulla serenità ho preferito qualcosa di lieve.
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